logo

Decreto sicurezza, il colpo di mano del governo richiede una forte opposizione

11 Aprile 2025

|In Primo piano

|Di Carlo Di Marco

L’emanazione del decreto-legge “sicurezza” da parte del Presidente della Repubblica, questa volta, mi è parsa incomprensibile. Nel merito della questione, mi aggiungo al coro delle osservazioni già espresse in questi giorni, numerose, competenti e rilevantissime. La prima, emersa con molta evidenza, è quella relativa alla violazione della forma di governo, fortemente intaccata dall’ennesima prevaricazione del Governo. Questa volta è stata davvero intollerabile ed eversiva. Nell’usare quest’ultimo aggettivo, chi lo ha fatto ha avuto la delicatezza di temere che fosse troppo forte (A. Algostino, Il Manifesto 6 aprile 2025), ma anche la consapevolezza che non lo era per niente: la sovversione della forma di Governo è in atto da tempo, semplicemente attraverso vie legali.

Nel mezzo dell’iter legis relativo al d.d.l. sicurezza (A.S. n. 1236), dopo oltre un anno, il Governo è intervenuto pesantemente. Il d.d.l. aveva superato i lavori delle commissioni congiunte affari costituzionali e giustizia del Senato; i relativi articoli erano stati depositati lo scorso 27 marzo per la discussione nell’Assemblea del 1° aprile; si erano fissate le date del 7 aprile per la presentazione degli emendamenti e del 15 aprile per l’eventuale seguito. Vi erano state, come è noto, cinque importantissime osservazioni del Presidente della Repubblica e gli emendamenti preparati erano moltissimi (non potevano essere pochi).

A questo punto, atteso che l’accoglimento delle osservazioni del Colle sarebbe stato blando, superficiale e irrilevante, quindi ancora a rischio, per fare in fretta il Governo ha compiuto un colpo di mano eversivo degli equilibri costituzionali fra Parlamento e Governo. Ha rinunciato al d.d.l. 1236 traslando i suoi contenuti normativi in un Decreto-legge che, come si sa, entra in vigore subito; è un atto avente forza di legge; dura sessanta giorni entro i quali deve essere convertito in legge dal Parlamento; se non viene convertito decade ex tunc con gravi conseguenze per gli atti eventualmente adottati in sua vigenza. Insomma, hanno strozzato il dibattito parlamentare su temi che afferiscono al novero dei diritti fondamentali delle persone (specie quelle più deboli). Si è voluto evitare ogni rischio che l’orientamento autoritario del Governo potesse essere messo di nuovo in discussione.

Non c’è pericolo, in realtà, che il Parlamento possa non convertire il decreto: c’è una maggioranza al servizio del Governo; su questo iter, francamente, non vedo alcun contrasto nella maggioranza e alla fine ci sarebbe comunque la questione di fiducia.

Tornando al Presidente della Repubblica, tuttavia, vero è che, come organo di garanzia costituzionale, non entra nel merito delle scelte politiche del Governo. Egli è privo di poteri di indirizzo dell’azione politica e, persino nell’istituto del rinvio delle leggi, osserva il limite che risiede nei caratteri della “palese” o “manifesta” incostituzionalità delle leggi rinviate, ma in passato vi sono stati casi in cui ha rifiutato l’emanazione di un decreto-legge per difendere il principio della separazione dei poteri. A maggior ragione, qui c’è proprio un’invasione delle funzioni del Parlamento da parte del Governo. Una gamba tesa che rompe gli equilibri della forma di Governo, con gravi ripercussioni sulla forma di Stato (cfr. G. Azzariti, Il Manifesto 4 aprile 2025). Avevamo avuto avvisaglie: qualcuno nei giorni precedenti lo aveva minacciato suscitando qualche incredulità, ma improvvisamente il Governo ha gettato a mare un iter parlamentare durato quasi 18 mesi e in pochi minuti ha emanato l’atto straordinario e urgente (che non è affatto né straordinario né urgente) che infrange i diritti della persona, crea nuovi reati, inasprisce pene già esistenti, privilegia le forze dell’ordine rispetto ai comuni cittadini e altre diavolerie. Ecco perché l’emanazione del decreto da parte del Colle lascia molto amaro in bocca.

Il Governo, d’altro canto, si muove con molta saccenza e grande sicumera di stampo trumpiano, soprattutto nei confronti degli appartenenti all’ordine della magistratura che osano esprimere pareri competenti. Si è detto, infatti, che il decreto emanato “manda un messaggio inquietante: pone le basi per la repressione del dissenso e crea […] agli occhi della collettività un’emergenza che non esiste, visto che [non si] rileva un allarme sociale tale da giustificare i presupposti per un decreto” (R. Maruotti, segretario Anm). Con molta “diplomazia” si è anche detto: “quel decreto porterà a non pochi problemi interpretativi e applicativi: accontenterà tanti cittadini, ma provocherà anche un forte dissenso” (C. Parodi, Presidente ANM). La maggioranza, però, sbraita perché per essa il dissenso è riprovevole: si parla di “ennesimo sciagurato attacco alla politica […] l’associazione nazionale magistrati rispetti l’autonomia di governo e parlamento» (A. Crippa, vicesegretario del Carroccio); quella delle toghe è «un’invasione di campo»; all’Anm “non spetta alcun potere di veto sulle scelte dell’esecutivo (A. Ostellari, sottosegretario alla Giustizia). Con tutta evidenza, sfugge ai traghettatori verso l’autoritarismo “nella legalità” che la libertà di pensiero, la critica, l’espressione del dissenso, la partecipazione alle scelte politiche di chi governa e decide, sono elementi irrinunciabili della democrazia costituzionale nata dalla Resistenza.

Il Decreto dovrà essere convertito entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore; detta conversione dovrebbe incontrare la fermezza delle opposizioni parlamentari, ma non escludo emendamenti peggiorativi da parte della maggioranza dopo aver dovuto cedere a qualche lieve modifica per via delle osservazioni del Presidente della Repubblica. Tutto sommato, non vedo grandi ostacoli alla conversione in legge, nemmeno in sede di promulgazione (vista la precedente emanazione). Ma la legge di conversione (anche il decreto-legge se ci fosse il tempo) può essere oggetto di referendum abrogativo: questa mi pare l’unica strada per una battaglia democratica.

Dopo la demolizione del primo pilastro della democrazia costituzionale costituito dalla rappresentanza e dal gioco democratico in un Parlamento rappresentativo che non c’è più, restano gli altri due pilastri: la partecipazione popolare e quella referendaria. Restano, in altre parole, la conoscenza, l’informazione di milioni di cittadini, la mobilitazione dal basso, l’unità delle forze sociali e politiche di base, l’azione referendaria e la lotta.

Lascia un commento